di Massimo Mastruzzo*
Ricordate quando, tra il 2018 e il 2019, la società WTE Srl vendette come fertilizzanti 150mila tonnellate di fanghi tossici, poi finiti su 3.000 ettari di campi agricoli nel Nord Italia?
Risuonano ancora nelle orecchie le intercettazioni di quella vicenda, registrate dai Carabinieri Forestali il 19 giugno 2019 e riportate nelle 204 pagine dell’ordinanza del gip Elena Stefana: “Io ogni tanto ci penso eh… Chissà il bambino che mangia la pannocchia di mais cresciuta sui fanghi…” — Antonio Carucci, responsabile commerciale della WTE.
Un pensiero agghiacciante, simbolo del cinismo industriale con cui venivano trattati rifiuti spacciati per concimi. Eppure, a fronte di tali parole, l’indignazione pubblica non ha trovato giustizia nella sentenza del processo a Giuseppe Giustacchini, amministratore della società: un anno e quattro mesi per traffico illecito di rifiuti; prescritti i reati di discarica abusiva ed esalazioni moleste; assoluzione per traffico di influenze illecite.
Rimaneva almeno la consolazione che la WTE fosse stata condannata alla revoca dell’autorizzazione all’esercizio d’impresa e al ripristino dello stato dei luoghi contaminati.
Ma qui si apre la domanda più grave: qualcuno ha mai verificato l’effettiva bonifica dei terreni?
Ad oggi non esiste alcun aggiornamento pubblico che certifichi il completamento del risanamento o lo stato ambientale attuale delle aree coinvolte. Un silenzio che pesa, soprattutto perché parliamo di campi agricoli produttivi, dove il ciclo alimentare si intreccia con la vita quotidiana dei cittadini.
Il nuovo caso Sovea: la storia che si ripete
Oggi, nel cuore del Bresciano, un’altra inchiesta riporta al centro il tema della gestione illecita dei rifiuti. È il caso della Sovea Srl di Ghedi, società autorizzata a ritirare rifiuti vegetali dalle multiutility per trasformarli in compost agricolo. Secondo le indagini, 250mila tonnellate di rifiuti vegetali non sarebbero mai state trattate per eliminare i materiali estranei, “allo scopo di massimizzare i profitti”.
Quel compost — venduto a un euro a tonnellata o addirittura regalato — sarebbe finito nei campi di Ghedi, Calvisano, nel Piacentino e in altri comuni della Bassa Bresciana, contaminando terreni agricoli con pezzi di plastica, vetro e idrocarburi fino a dodici volte oltre i limiti di legge.
Il 13 ottobre, dopo quattro anni di indagini condotte dai Carabinieri Forestali di Brescia e Vobarno, con il supporto del Nucleo Radiomobile di Verolanuova e su mandato della Direzione Distrettuale Antimafia, è stato sequestrato l’impianto di compostaggio di Ghedi: un capannone di 9.600 metri quadrati immerso nella campagna, dove i cumuli di compost contaminato venivano accumulati e distribuiti.
Bonifiche fantasma e diritto all’informazione
Non è ancora chiaro se i terreni interessati coincidano con quelli contaminati anni prima dai fanghi della WTE. Ma l’ipotesi che il suolo bresciano — già provato da decenni di pressione industriale — possa aver subito una doppia contaminazione non può essere esclusa.
Di fronte a questi scenari, diventa fondamentale che gli enti pubblici rendano accessibili le mappe dei terreni coinvolti, gli esiti delle analisi e lo stato effettivo delle bonifiche. La trasparenza è l’unico antidoto al sospetto che, sotto la superficie dei nostri campi, continuino a nascondersi i residui tossici dell’indifferenza.
Ogni tanto dovremmo ricordare quel bambino evocato nell’intercettazione: il bambino che “mangia la pannocchia di mais cresciuta sui fanghi”.
Pensarci non come a un episodio di cronaca giudiziaria, ma come a un simbolo di responsabilità collettiva. Perché se nessuno paga davvero per i crimini ambientali, la memoria di quell’ingiustizia dovrebbe almeno diventare un manifesto, affisso su ogni campo contaminato. A ricordarci che l’Italia, troppo spesso, continua a sporcarsi — e a tacere.
*Presidente Commissione Ambiente e Territorio del Comune di Montirone (BS)
(29 ottobre 2025)
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