di Fabio Galli
Non è necessario varcare ancora la soglia perché già prima dell’ingresso, prima dell’ombra stessa dell’edificio, qualcosa si muove: un’aria più densa, come se una vibrazione leggera attraversasse il cortile e scivolasse lungo il selciato. La Fabbrica del Vapore sembra respirare, come se custodisse un segreto pronto a liberarsi non appena l’occhio si abitua alla penombra e l’orecchio rinuncia al brusio della città. Non c’è più Milano, non del tutto almeno. C’è un’anticipazione, un mormorio che proviene da altrove — forse da un tempo non accaduto, forse da una memoria che non appartiene a nessuno e che pure si riconosce subito.
E quando finalmente si entra, lo spazio non accoglie: rapisce. Le pareti, enormi e nude come cattedrali industriali, si piegano in una geografia instabile, pronta a cambiare forma a ogni passo. Non si capisce bene se ciò che vibra sulla superficie sia luce, pittura o un sogno altrui che chiede di diventare nostro. È qui, dentro questo paesaggio mentale sospeso, che tre artisti — anzi tre pianeti — cominciano a orbitare l’uno accanto all’altro. Dalí, Miró, Picasso: non semplicemente esposti, ma convocati. Come se la Fabbrica, per un capriccio del destino, avesse deciso di trasformarsi in un osservatorio dove il tempo smette di essere una linea e diventa una spirale.
Non c’è antagonismo fra loro, non c’è gerarchia; c’è il brusio di una conversazione lunghissima che attraversa epoche, guerre, desideri e rivoluzioni estetiche. Una conversazione che continua anche quando nessuno più la ascolta, che sopravvive ai corridoi della storia, alle sue fratture e ai suoi abbagli. È un incontro che Milano non accoglie soltanto come evento culturale, ma come un gesto di ostinazione poetica: un modo per ricordare che la libertà — quella vera, quella indisciplinata — nasce proprio quando l’immaginazione osa farsi materia.
Il percorso della mostra non procede in linea retta. Piuttosto si snoda come un serpente placido che invita a lasciarsi disorientare. Le opere grafiche, le ceramiche, le incisioni, le litografie, i multipli non sono semplicemente categorie: sono capitoli di un romanzo in cui la Spagna appare e scompare come un paesaggio febbrile. Una Spagna che si agita sul confine fra la realtà concreta delle sue tragedie e la potenza smisurata dei suoi simboli. Si vede il ricordo dei bombardamenti e, accanto, il volo impossibile di un animale inventato; si sente l’eco di un’infanzia rurale e immediatamente dopo il fremito di una città che esplode in nuove forme.
Ogni sala è un piccolo mondo autonomo, ma non isolato: le linee di Miró bussano alle figure di Picasso, e i deliri controllati di Dalí rispondono con un sorriso obliquo. Così il surrealismo si stringe all’avanguardia come due amanti che si riconoscono da sempre, mentre la figurazione mitica si avvicina senza pudore, pronta a mostrare che anche un mostro, anche un sogno, anche una ferita possono raccontare più della cronaca.
Il risultato è un racconto corale: non un catalogo di maestri, ma una polifonia in cui le voci individuali diventano un’unica, gigantesca dichiarazione d’esistenza. L’arte, qui, non è decorazione né memoria imbalsamata. È rivelazione dell’invisibile, ostinazione del possibile, libertà che rifiuta di morire anche quando tutto intorno pretende ordine, prudenza, obbedienza.
E così, usciti dalla Fabbrica, Milano ritorna. Ma lo fa come dopo un sogno: uguale, eppure spostata di qualche millimetro. Quanto basta per capire che la realtà — come l’arte — non smette mai di ricominciare.
(16 novembre 2025)
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