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All’HangarBicocca, dentro la ferita luminosa di Nan Goldin

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di Effegi

Entrare nella retrospettiva di Nan Goldin all’HangarBicocca significa trovarsi immediatamente di fronte a un dispositivo emotivo più che a una semplice mostra. “This Will Not End Well”, progettata nella sua architettura espositiva da Hala Wardé, distribuisce sei grandi lavori in altrettanti padiglioni autonomi, quasi piccole capsule narrative che obbligano il visitatore a un rapporto diretto, ravvicinato, in alcuni momenti quasi fisicamente impegnativo. L’enorme spazio dell’Hangar scompare, sostituito da un villaggio temporaneo che costringe a entrare dentro la memoria dell’artista più che a percorrere un percorso cronologico.

La mostra si apre con un ambiente sonoro concepito come soglia: un invito — e insieme un avvertimento — a sospendere la distanza abituale che spesso accompagna la fruizione museale. Qui non si fotografa, non si cattura: si assiste. Goldin chiede di essere ascoltata più che osservata, e lo fa attraverso opere che non sono mai semplici sequenze visive, ma strutture narrative e politiche.

Il cuore del percorso è “The Ballad of Sexual Dependency”, il grande diario collettivo che Goldin aggiorna e rimonta da decenni. Proiettata in uno spazio raccolto, la Ballad resta l’opera che più di ogni altra definisce la sua poetica: un mosaico di relazioni, desideri, notti sfibrate, violenze intime e improvvise tenerezze, nel quale il mondo queer e punk degli anni Ottanta torna con una vitalità che non ha nulla di nostalgico. La forza della Ballad, in questa nuova presentazione, deriva dalla sua capacità di non cedere a nessuna estetizzazione: la bellezza nasce dalla verità, e la verità non evita le contraddizioni.
Accanto alla Ballad, “The Other Side” offre un ritratto della comunità trans conosciuta e frequentata da Goldin tra Boston, New York e l’Europa. È uno dei capitoli più compatti della retrospettiva: un racconto affettivo e diretto, che aggiorna la storia LGBTQ+ attraverso volti che non chiedono compassione ma riconoscimento. Il ritmo della sequenza, pensata come un vero e proprio album di famiglia, restituisce una genealogia alternativa che la fotografa ha custodito per decenni.

Lo spartiacque emotivo arriva con “Sisters, Saints, Sibyls”, presentato nel Cubo, lo spazio più monumentale dell’Hangar. Qui la narrazione diventa personale e dolorosa: la vicenda della sorella dell’artista, morta suicida a diciotto anni, viene messa in scena in modo diretto e privo di qualsiasi abbellimento drammatico. L’impatto visivo e sonoro del lavoro, amplificato dalla verticalità del Cubo e dalla possibilità di osservare l’installazione da più livelli, produce una sospensione emotiva che resta l’esperienza più intensa dell’intera mostra.

Il tema della dipendenza ritorna in “Memory Lost” e “Sirens”, due opere installate in spazi contigui e costruite come due movimenti della stessa storia. La prima affronta la devastazione dell’addiction attraverso un montaggio claustrofobico, fatto di ricordi intermittenti e stanze che sembrano non avere uscita; la seconda ne mostra invece la dimensione seduttiva, quasi estatica, lavorando su immagini ipnotiche e rallentate. Goldin accosta attrazione e distruzione senza giudicare, lasciando che sia il ritmo interno delle opere a definire la complessità del tema.

Lavori inediti per il pubblico europeo

La retrospettiva presenta anche lavori inediti per il pubblico europeo. “You Never Did Anything Wrong” segna una svolta verso un linguaggio più astratto, ispirato a un mito sull’eclissi. È un’opera che sorprende per leggerezza e per un’inedita apertura verso una dimensione cosmica, meno legata ai corpi e più agli elementi. “Stendhal Syndrome”, invece, intreccia ritratti contemporanei e opere d’arte antiche, costruendo un dialogo tra la tribù queer dell’artista e il canone museale: una riflessione sulla metamorfosi, sull’estasi estetica e sulla presenza delle vite marginali all’interno della storia dell’arte.
L’insieme della mostra non racconta una carriera, ma un ecosistema di relazioni, ferite e alleanze. L’intensità emotiva è elevata, talvolta quasi eccessiva, e rappresenta l’unico possibile limite della retrospettiva: Goldin non concede pause, non alleggerisce, non mette tra parentesi la vulnerabilità. L’HangarBicocca, da parte sua, rinuncia a qualsiasi mediazione istituzionale e lascia spazio a una narrazione che chiede coinvolgimento più che contemplazione.

Ne emerge un ritratto coerente e necessario. In un momento storico in cui la cultura visiva tende spesso a ripulire, distanziare, alleggerire, Goldin rimette al centro ciò che disturba e ciò che ferisce, ricordando che la fotografia può essere una forma radicale di testimonianza. La retrospettiva milanese non è un archivio, ma un attraversamento: un invito a guardare ciò che normalmente resta fuori campo. E a riconoscere che, anche quando “non finirà bene”, l’onestà del racconto è ciò che continua a farci vedere davvero.

 

 

 

(10 dicembre 2025)

©gaiaitalia.com 2025 – diritti riservati, riproduzione vietata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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